Ogni anno, al termine della stagione “fredda” (tutto a questo mondo è relativo), per tre giorni Chiang Mai si riveste di fiori. Letteralmente.
Senza apparenti avvisaglie, ogni angolo del canale che delimita la città vecchia partorisce improvvisamente un miraggio di rose, crisantemi, orchidee e fiori esotici dalle forme vagamente surrealiste. Guardi e pensi che sia tutto finto, perché fino al giorno prima lì non c’era niente di vivo, non può trattarsi altro che di un coreografico, e nient’affatto male, set di plastica tirato su giusto giusto per il Chiang Mai Flower Festival.
In fondo ogni cosa è studiata ad arte per quello che è il festival dei fiori più grande di tutta la Thailandia. Immaginate il nostro carnevale: grandi carri che sfilano per la città, un concorso di bellezza, la banda che suona, qualche canzone stiracchiata al microfono. Non mancano nemmeno il vecchietto che annuisce compiaciuto e i bambini che battono le mani. Un po’ come assistere alla Segavecchia (chi è romagnolo sa di cosa parlo), se non che qui i carri sono completamente rivestiti di fiori, foglie, riso, mais e semini vari, in un tripudio di colori e meticolosità.
Proprio adesso, mentre me ne sto seduta a scrivere su questo tavolino traballante dell’ennesimo baretto molto western e poco thai, osservo la foresta di rose che da qualche giorno domina questo piccolo angolo del canale. Sono così sfrontatamente alte e fitte che quasi mi sento offesa.
Le guardo e il mio lato ecologista (messo a dura prova da quando sono qui) non può fare a meno di chiedersi che ne sarà di loro, ora che la 38° edizione del festival è giunta al termine.
Perché sotto ogni singolo petalo di questi fiori pulsa, inaspettato, un cuore di cemento.
Che spunta persino più veloce delle foreste di rose, e lo fa in modo subdolo e arrogante nell’(apparente) totale assenza di un piano regolatore e di quell’istinto, tipico del vecchio mondo, di preservare la vita dentro le città sotto forma di qualche fazzoletto verde sparso qua e là.
Perché questa città, che trova in “Rosa del Nord” il suo soprannome più lusinghiero e ingannevole, 362 giorni all’anno trascura il verde ed esalta il cemento.
Pur riposando ai margini di un’area naturale di oltre 250 km2 (Doi Suthep-Pui National Park) e foreste così verdi e suggestive da spingere a osare la parola “giungla” senza apparire esagerati, la città di Chiang Mai è del tutto priva di parchi pubblici, con la deliziosa e minuscola eccezione del Suan Buak Hat Park, nell’angolo sud-ovest della città vecchia, le cui dimensioni sono però più adeguate a fare un picnic sull’erba che a trovare rifugio dallo smog.
Questa città, cresciuta troppo velocemente e troppo in fretta, che ogni anno accoglie a braccia aperte folle oceaniche di turisti, smaniosa di soddisfarne le esigenze e di rubarle un pezzettino di ricchezza; questa città antica e di grande karma, la cui bellezza si svela soprattutto al tramonto, quando il rosso del sole si riflette nei mosaici di vetro che rivestono i templi e i mantra dei monaci risuonano tra le vie e i carretti di street food; questa bellissima e affascinante città, dove veicoli antiquati e una potente mafia della viabilità impedisce ai mezzi pubblici di circolare rendendo l’aria a volte irrespirabile; questa città, dicevo, per tre giorni all’anno si riveste di un miraggio di rose, crisantemi, orchidee e fiori esotici dalle forme vagamente surrealiste.
Guardi e pensi che sia tutto finto, perché fino al giorno prima lì non c’era niente di vivo, non può trattarsi altro che di un coreografico, e nient’affatto male, set di plastica tirato su giusto giusto per il Chiang Mai Flower Festival.
E forse è proprio così.