9 segnali per scoprire se hai l’animo del nomade digitale

nomade digitale

Diventare nomadi digitali
è un po’ come diventare missionari: è più una vocazione che una scelta di professione.

La vita, lo sappiamo, è abbastanza fantasiosa e imprevedibile e quasi mai le cose vanno esattamente come sognavamo da piccoli. Può capitare, così, che un giorno ci svegliamo dentro un ufficio a fissare gli spostamenti lentissimi della lancetta dell’orologio pronti a scattare come velocisti al termine dell’ennesima, infinita, pallosissima, svilente giornata di lavoro. 
Molto meno probabile, invece, che un giorno ci scopriamo nostro malgrado con un laptop in mano, lo zaino sulle spalle e un paese lontano miglia e miglia da casa con cui prendere confidenza.
Nomadi digitali non lo si diventa per caso: si sceglie di esserlo. Una di quelle scelte che si fanno con una mano sul cuore, più che sul portafogli (aimè). 
Una di quelle scelte che spesso vengono prese molto, molto tempo prima di salire alla superficie della coscienza.
 

Quel turbinoso e sorprendente percorso che si chiama vita  

La vita assomiglia a uno di quei sentieri di montagna sterrati pieni di sassolini, curve, salite e discese che si intrufolano in mezzo alle sterpaglie, spariscono dentro un bosco e all’improvviso si aprono su una vallata, un prato, la cima di una collina… il tempo di prendere una bella boccata d’aria e via di nuovo: sterpaglie, bosco, curve, salite, discese… Insomma, una cosa confusa e faticosissima e apparentemente priva di ogni parvenza di coerenza e linearità!

Ma hai presente quei quadri composti da tante piccole immagini che assumono un senso e un’armonia solo se visti a distanza? Ecco, la vita è uguale: un turbinoso caos vista da vicino, una collana di perle in cui un prezioso rimanda all’altro vista da lontano.

C’è anche De Andrè tra gli incredibili fotomosaici dell’artista Maria Murgia.
Ecco, se io mi distacco da me a sufficienza e guardo indietro al mio percorso, capisco che non sarei potuta diventare altro che una nomade digitale a un certo punto del mio cammino. La sofferenza di stare chiusa dentro un ufficio, l’impazienza che mi prendeva dopo un po’ che facevo lo stesso lavoro, i licenziamenti, l’intolleranza agli orari fissi, il bisogno fisiologico di un orario ridotto e di quella flessibilità che mi consentisse di mollare tutto per almeno un mese e partire per un viaggio… mica erano (solo) nevrosi, mica erano (solo) manifestazioni della sindrome di Peter Pan! Ero più che altro io che cercavo in tutti i modi di dire con chiarezza a me stessa ciò che non mi rendeva felice.
Come fare per essere felice non mi era del tutto chiaro, e forse non lo è nemmeno adesso, ma poco importava: delineare bene i confini di quello che non si vuole è un ottimo modo per capire quello che si vuole.  
Quando è iniziato il mio percorso di smarcamento da quello che mi succhiava energia, come capita sempre con cio’ che non ci rende felici, non sapevo ancora che volevo fare la nomade digitale, nemmeno sapevo che potesse esistere qualcosa di simile. Ma sapevo molto chiaramente che volevo tre cose:
 
  1. Fare un lavoro che mi appassionasse.
  2. Ridurre le ore di lavoro.
  3. Vedere il mondo.
E tutti i cambiamenti di questi anni, le porte chiuse, gli spiragli aperti, le opportunità afferrate, quelle lasciate andare, persino le fregature e i “passi indietro”, tutto, tutto a vederlo ora, è stato funzionale al percorso che mi ha portato un anno fa sulla cima di quel monte a prendere  la decisione che mi avrebbe cambiato la vita: diventare nomade digitale. 


I 9 segnali del nomade digitale da non sottovalutare

Certe volte però fare due passi indietro per osservarsi a distanza è davvero difficile, la vita con le sue incombenze di tutti i giorni, i casini, le preoccupazioni, è bravissima a intorpidire le acque e a inglobarci come un blob.
In questi casi allora può esserti di aiuto conoscere i segnali che dovrebbero farti rizzare le antenne.
I segnali, nove per la precisione (non volevo fare l’originale, è che il decimo non mi è venuto proprio in mente), che dovrebbero farti fermare per un momento, staccare la spina da quello che stai facendo e focalizzare l’attenzione su di te. Per capire quello che vuoi fare, o almeno quello che non vuoi fare. E magari scoprire che anche tu, sotto la tua cravatta a pois e la tua agenda elettronica strapiena, non sei altro che l’ennesimo potenziale missionario del nomadismo digitale.

 La routine ti fa sentire con un cappio al collo

Il mio amico nomade digitale Jonathan Pochini mentre sfida l’impietoso sole aussie a Bondi Beach, Sydney, Australia.
Ho sempre avuto rapporti molto burrascosi con la routine. Che sia sul lavoro o nella vita relazionale, quando le cose si succedono sempre uguali, scandite da orari fissi, luoghi fissi, parole fisse, gesti fissi, gente fissa beh a me prende l’ansia. Non posso farci niente. 
Intendiamoci, non sono contraria alla routine tout court, anzi,  darsi una qualche regolarità e un po’ di disciplina nella vita quotidiana non solo non è sbagliato, ma è indispensabile, perché senza qualche punto saldo la vita di chi come me tende alla vaghezza rischia di farsi talmente leggera da volare via. Quello a cui sono estremamente contraria è la ripetitività che nasce dalla paura di cambiare, dalla paura di sbagliare, dalla paura di non avere più tutto sotto controllo. La routine è un’enorme distesa di sabbia sotto cui spesso e volentieri si nasconde la testa. Ma è anche una questione di indole: c’è chi nel fare sempre le stesse azioni, avere sempre lo stesso lavoro, vivere sempre nello stesso posto, ci sguazza come un bimbo nel liquido amniotico, e c’è chi nelle medesime condizioni comincia ad annaspare in cerca di una bolla d’aria per rubare un pizzico di ossigeno.
Se anche tu appartieni a questa seconda categoria, non è detto che diventerai un nomade digitale, ma difficilmente ti troveremo allo sportello delle poste. 

 La precarietà ti fa sentire a tuo agio

                                                                                             
Se la routine ti dà noia è facile che nella precarietà tu ti senta a tuo agio. Nella vita in genere e nel lavoro in particolare. Inquietantemente a tuo agio, perché, sappilo, sei una nota stonata in questo mondo che vede nel precariato la sua nuova peste.
La generazione dei miei genitori, quella divenuta adulta durante il boom economico degli anni Sessanta, è cresciuta con il mito del posto fisso. Dopo gli stenti della guerra era un privilegio cui rendere onore assicurarsi uno stipendio su cui contare per il resto della vita e costruire casa. Normale che dal loro punto di vista il precariato sia una tragedia, come è normale che dal nostro punto di vista sia semplicemente un dato di fatto. Ed è indubbio che la cosiddetta “flessibilità” del mondo del lavoro per qualcuno sia stata la più grande fortuna che potesse capitargli, perché gli ha fornito la scusa perfetta per fare ciò che probabilmente avrebbe fatto comunque, solo con molti più sensi di colpa: abbracciare voluttuosamente il precariato (guarda il video sopra per vedere come il precariato viene vissuto a Hubud, il coworking space di Ubud, Bali).
L’unico lavoro a tempo indeterminato che ho avuto l’ho lasciato dopo due anni per andare in Australia. Da allora non mi è più stato offerto, ma lavori full time sì, e ho rifiutato anche quelli. Volevo mantenere il tempo per fare quello che mi piaceva, volevo trovare il modo di lavorare per conto mio, volevo concedermi il lusso di decidere a cosa dedicare attenzione ed energie senza imposizioni dall’alto. Volevo, insomma, con tutte le mie forze, essere precaria!
Se anche tu alla prima occasione gridi al mondo “Sono un precario e me ne vanto” benvenuto nel club… e che l’iva abbia pietà di te! 

 Non sei attaccato agli oggetti

Per un po’ anche questa è stata la mia casa.
Quando ero piccola conservavo tutto: le gommine del Mulino Bianco, gli adesivi, le figurine per giocarci con gli amici in fondo alla via. Crescendo il feticismo è passato a cose più “nobili”: i diari scolastici, i libri, i quaderni dove annotavo tutti i miei voli pindarici e gli abbozzi di romanzi che cominciavo sempre e non finivo mai. A sedici anni rubai un ciuffo biondo al ragazzo di cui mi ero follemente innamorata e lo conservai dentro una scatolina per anni.
Poi crescendo la presa sugli oggetti ha cominciato ad allentarsi. Non per una decisione cosciente, semplicemente è successo che ho cominciato a prestare sempre meno attenzione alle “cose”. Sono l’unica persona di mia conoscenza che non è mai andata a ritirare il diploma di laurea.
Questa leggerezza nei confronti del materiale mi è stata utilissima negli anni successivi, quando dopo avere abbandonato il nido natale ho cominciato a collezionare traslochi. Non che mi trasferissi con pochi bagagli, anzi ogni volta mi trascinavo dietro una quantità di scatoloni che non si capiva da dove spuntassero fuori, ma a ogni trasloco il contenuto di quegli scatoloni era diverso, ogni volta mi portavo dietro cio’ che in quel momento mi sembrava potesse servirmi. Niente orpelli del passato, niente ricordi senza i quali non avrei potuto vivere. Se la mia casa avesse preso fuoco avrei utilizzato i famosi 5 minuti prima di fondere guardandomi intorno spaesata senza sapere cosa salvare.
Se anche la tua vita essenziale sta dentro uno zaino e tutto ciò che conta davvero è qualcosa di impalpabile che non occupa spazio, come le persone, sappi che il tuo è un animo nomade e quello sì che ti accompagnerà per il resto della tua vita. 

 Ogni volta che sei in pausa guardi Skyscanner per scoprire le migliori offerte di volo

Aeroporto di Ko Samui, Thailandia del sud.

I datori di lavoro dovrebbero inserire nella black list dei siti da bannare durante l’orario di ufficio i motori di ricerca dei voli. Poco che tu abbia il pallino dei viaggi, Facebook in confronto a Skyscanner è un passatempo innocuo. Non so tu, ma io riesco a passare ore intere su queste moderne rappresentazioni del paradiso terrestere a provare ogni possibile combinazione. Poi io sono un caso un po’  patologico, perché certe volte mi prende la voglia di andare ovunque, e hai presente quanti aeroporti contiene ovunque?
Se anche tu sei un drogato di Skyscanner, Volagratis, Opodo, Jetcost e compagnia (aerea) bella, comincia a preoccuparti seriamente: il tuo pare a tutti gli effetti un fancazzismo che batte a tempo di nomadismo digitale!

⑤ Ami i film, i libri, la musica, le persone che narrano di terre lontane

Didjin’Oz: il festival di musica, arte e cultura australiana che si tiene ogni anno a Forlimpopoli (FC).
Ami la cucina etnica, i festival interculturali, i concerti di musica popolare, africana, brasiliana e balcanica. Ami aggirarti per i mercatini in cerca di un borsellino, una sciarpa, un braccialetto etnico, i negozi di Altromercato sono la tua seconda casa e passeresti giornate intere a visitare mostre fotografiche che raccontano di universi sconosciuti. 
Poi ci sono i libri e i film, naturalmente, e qui l’interesse si fa quasi maniacale, perché a seconda del paese di interesse del momento cominci a leggere tutto quello che trovi sull’argomento. Quando mi innamorai dell’Australia cercai ogni parola vergata su carta che mi narrasse della mia amata terra rossa: Chatwin, Marlo Morgan, Bill Bryson, Julia Blackburn… ma anche emeriti, meritevolissimi sconosciuti che raccontavano la terra bruciata dal sole dal loro personalissimo punto di vista. Una volta mi feci accompagnare a vedere un film in gran parte in lingua aborigena sottotitolato: il mio accompagnatore fu stoico e rimase fino alla fine, ma non si fece vedere mai più.
Se anche tu sei un compulsivo riguardo a tutto ciò che è etnico, forse è arrivato il momento di chiedersi cosa c’è sotto: che il tuo inconscio ti stia urlando che devi partire? 

⑥ Il tuo picco di concentrazione cade solitamente in orari extra ufficio

Ecco come si finisce quando non si possono rispettare i propri personalissimi picchi di concentrazione…

Il mio picco di concentrazione di solito si aggira tra le 6.30 e le 9 del mattino. Quando si faceva ora di andare in ufficio naturalmente mi si era bello che spento e al mio computer riuscivo a dedicare solo gli strascichi di quel momento di illuminazione quotidiano. Conosco molti creativi che invece danno il meglio di sé a notte fonda, quando gli altri dormono, e questo spesso è un problema, a meno che tu non abbia un lavoro svincolato da orari di ufficio e la possibilità di autoregolarti come meglio credi, e allora può anche diventare un vantaggio. Se sei nomade digitale e lavori con clienti italiani il fuso orario spesso ti verrà incontro, facendo combaciare la tua massima resa con gli orari di ufficio altrui.
Se il tuo cervello tocca le vette più alte alle 4 del mattino, dovresti prendere in considerazione l’idea di diventare fornaio. Oppure nomade digitale.

 Le parole che digiti con maggiore frequenza su Google sono “mollo tutto” e “ricomincio a trent’anni (quaranta, cinquanta…)”

I mesi precedenti alla grande decisione di mollare tutto e iniziare finalmente ad ascoltare la mia indole errabonda, passavo gran parte del mio tempo su internet a cercare storie di chi prima di me aveva fatto il grande passo. Che finché hai vent’anni il mollare tutto è più frequente del tenersi tutto, ma quando cominci ad avvicinarti agli “anta” gli esempi cominciano a diminuire drasticamente, soprattutto se i tuoi anta sono di genere femminile. Digitavo come in preda a un raptus le parole chiave che mi premevano, e cominciai a scoprire quel meraviglioso mondo che ruota attorno a siti come Vogliovivere così, Nomadidigitali, Mollo tutto ecc.: un universo di anime inquiete che vedevano nel mondo il giardino di casa loro. Ricordo ancora che quando mi imbattei nel blog di Eli Sunday Siyabi Too happy to be homesick mi sentii come un cieco che all’improvviso riacquista il dono della vista: allora non ero l’unica folle che sogna di ricominciare da capo a questa età traditrice! Da lì mi si aprì un mondo. Che mi ha portato qui in Thailandia.
Se anche tu pensi che se un immenso blackout cancellasse dalla faccia della terra questi siti illuminanti tanto varebbe tagliarti l’indice di entrambe le mani perché non sapresti più cosa digitare su Google? Questo, mi spiace, ma è allarme rosso!

 A quarant’anni non hai ancora messo su casa

Ricorderò sempre come mi guardò la mia guida laotiana quando gli confessai che non ero sposata, come a dire: “Dai di là verità, mi prendi in giro!”
“Come dici? Hai 40 anni e… non hai figli?”
“… veramente ne ho solo 39… ancora per qualche mese almeno.”
“Sì sì certo, ho capito… ma un fidanzato? Quello ce l’hai?”
“Mmm… “
“…”
“… Ma non doveva piovere oggi??”
Se in Italia vieni considerata una faccenda un po’ bizzarra, sappi che in molti Paesi esteri sei qualcosa di incomprensibile. Anzi no, diciamolo pure: una vera e propria tragedia! Insomma, figlia mia, che c’è in te che non va?” 
A parte che su questo ci sarebbe da scrivere un libro intero…
Se a 40 anni o giù di lì ancora svolazzi senza mai posarti e tutto ciò che sei riuscito a costruire è un mandala zoppo che fluttua al volere del vento, sappi che potresti avere quella malattia pericolosissima, perché pure contagiosa nella sua forma più grave, che risponde al nome di Sindrome del nomade digitale. 

 L’idea di svegliarti in un posto che non conosci in mezzo a gente che non conosci anziché gettarti nello sconforto ti procura un brivido di eccitazione


Poche cose hanno il potere di farmi sentire viva e trepidante come svegliarmi in un posto che non ho mai visto prima. L’eccitazione della novità, la promessa di scoperte indimenticabili, di scorci, esperienze, incontri che ricorder
ò per tutta la vita. Ed essere lì da sola non è un limite (quello tutt’al più puo’ diventarlo dopo), ma un bonus, perché aggiunge la libertà di gustarmi la novità a modo mio, con i miei tempi, senza dovere scendere ai compromessi inevitabili di quando spartisci il viaggio con un’altra persona. 
Per qualcuno questo scenario è di una tristezza infinita, per altri semplicemente un incubo. Per qualcun altro ancora, infine, un sogno ad occhi aperti.
Se l’idea di risvegliarti dentro confini e contenuti ignoti ti fa sentire come un bambino che si sveglia la mattina di Natale pensando ai regali che lo aspettano sotto l’albero, amico mio non ti resta che una sola cosa da fare: aprire il browser e digitare www.nomadidigitali.it! 

Se ti viene in mente questo fantomatico decimo punto scrivilo nei commenti qui sotto! 

5 commenti

  1. Mi ci trovo bene nel punto 1)
    🙂
    Sono "scappato" in Australia proprio perché possiamo dire mi sentivo il cappio al collo: 40 ore alla settimana, 4 settimane di ferie l'anno… per i prossimi XX anni?
    Era tutta qua la mia vita e la mia realizzazione personale e professionale?
    Forse coscientemente c'avevo anche provato a fare la persona "seria".
    Un profondo senso di vuoto (e forse addirittura di fallimento) e un paio di domeniche tristi e piovose passate ad inseguire su internet sogni di una vita alternativa erano il segnale che c'era qualcosa da fare.

    Poi ho fatto qualche colloquio con prospettive di contratto anche in Australia, anche prima di mollare definitivamente l'Australia. Ogni volta ci sono andato molto combattuto e l'ansia di venire incastrato in una routine sterile dal punto di vista esistenziale era sempre molto forte, più forte della paura dell'incertezza di una vita da freelance.

    Quindi se qualcuno sente questo tipo di ansia quando si presenta un'opportunità a tempo indeterminato… direi che sia un sintomo da ascoltare con attenzione.
    Per quanto riguarda invece la paura dell'incertezza, dell'ignoto e del cambiamento. Vorrei rassicurare tutti: questa paura c'è, fa parte di noi e fortunato chi non la sente. Ma è quel tipo di paura che dobbiamo superare, forse semplicemente perché lo vogliamo!

    Per il resto… Ultimamente sto contemplando l'espressione "volere è potere… anche se a volte ci vuole tempo". 🙂

  2. Beh se te la sei cavata con un paio di domeniche tristi e piovose direi che ti è andata di lusso!! Io prima di decidermi ci ho messo ANNI ma quello che conta alla fine è il risultato no? Anzi, ogni tanto mi dico che tutte le tribolazioni date dal "lo faccio o non lo faccio" alla fine non hanno fatto altro che farmi gustare ancora di più il momento in cui finalmente sono riuscita a prendere il coraggio a 4 mani, visto che 2 non erano sufficienti…
    sono daccordissimo con quello che dici sulla paura dell'incertezza, dell'ignoto e del cambiamento: spesso si ha una percezione errata di chi ha fatto il grande passo pensando che sia una persona che non ha paura di niente..io ero folle di paura! poi per fortuna, come succede sempre, si scopre che anche la paura, se guardata bene da vicino e non ignorata come se non esistesse, fa un po' meno paura 😉

    …. eh sì, è proprio uno dei tramonti inconfondibili di Ko Phangan!

  3. Monique

    Ho 8 sintomi su 9! È grave!?
    Però me ne manca uno fondamentale che è quello che mi tiene ancora agganciata qui: il numero 8! Ho una casa e soprattutto una famiglia. Ora non mi tocca che sperare che mio marito e le mie due piccole scoprano di avere anche loro questa sindrome! Io per adesso cerco di attaccargliela. 🙂 Buon nomadismo a tutti i nomadi!

    • Eh è grave sì cara Monique, anzi gravissimo! Di buono c’è che sei in ottima compagnia!
      Tu lavora di fino, silenziosa e lentamente, senza farti notare, soprattutto con le bimbe… e se anche non dovessi convincerli a mollare tutto e andare, ricorda che esistono sempre quelle cose meravigliose che si chiamano vie di mezzo, si può essere nomadi in tanti modi diversi, anche part-time, anche solo per un piccolo periodo. Tanto lo sappiamo che il nomadismo è più che altro una condizione mentale…o no? 😉 Ti abbraccio!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.