Il carrozzone delle dicotomie

il carrozzone delle dicotomieIl colpo d’occhio non è dei più promettenti. In mezzo a una folla copiosa che zigzaga tra la merce in saldo intenta a dare fondo a un fondo del portafoglio che ormai non esiste più, un centinaio di persone è stretta al centro di Piazza del Popolo in cerca di un po’ di calore.
Le voci di “We are the world” si fanno largo tra lo stemma della città di Cesena, qualche sparuto rappresentante delle forze dell’ordine e alcuni fotografi che si aggirano annoiati privi di degne curiosità su cui puntare l’obiettivo. Un gruppo di ragazzini si arrampica sui gradoni di Fontana Masini per una foto ricordo e il solito tipo allampanato che non si perde una manifestazione “perché l’importante è esserci” arriva a cavallo della sua bici sgangherata rinvigorito dal nobile fine della protesta.
Quando sento Freddie Mercury ricordare che in fondo in fondo, malgrado tutto, noi siamo i campioni, mi tremano le gambe dallo sconforto.
La manifestazione in stile romagnolo sta per iniziare, aspettiamo solo i calderoni di vin brulè e qualche giro di caldarroste.

Dalle mani dei manifestanti spuntano qualche candela smunta, tre o quattro cartelli con l’hashtag “libertà” e naturalmente i fogli neri che fanno risaltare l’icona bianca colonna visiva di questi giorni: la scritta “Je suis Charlie”. Una ragazza ha il capo coperto dal velo e la mano stretta attorno all’asta dello stendardo della pace; l’unica altra bandiera di questa piazza, improvvisamente troppo grande, è quella italiana che sventola a mezz’asta dal Palazzo Comunale.
Alle 17.25 il microfono pende ancora afono in attesa dei primi discorsi. Una signora mi si avvicina timida e chiedendomi scusa domanda per che cosa sia la manifestazione. Guardo attorno a me i cellulari che si alzano verso il cielo per i primi selfie con candela e mi domando la stessa cosa.
Siamo qui per le vittime di Charlie Hebdo e del supermercato kosher? Per difendere la libertà di stampa? Per la satira? Per promuovere la superiorità di una fantomatica pura, integra e libertaria cultura cristiana?
Chissà se hanno spiegato a questi bambini che si aggirano gioiosi con una candela in mano il significato di quella fiammella, chissà se hanno detto loro che darle vita per un’ora in una piazza non ha un gran significato se poi non la tieni accesa giorno dopo giorno mentre spartisci la realtà con il tuo vicino straniero. Chissà se hanno accennato loro la complessità di quello che è successo a Parigi, le mille sfumature che si porta appresso, le riflessioni che suscita, le conseguenze che potrebbe comportare. O se invece hanno azzerato i dubbi e stabilito confini netti tra le categorie per reinventarsi innocenti. Oriente e occidente. Cristiano e musulmano. Satira e irrisione. Offesa e libertà di parola.
Quanto fa bene all’uomo sentirsi schierato.
Il grande potere rassicurante della dicotomia.

Finalmente un ragazzino rompe gli indugi e chiarisce a tutti il motivo per cui ci troviamo oggi, infreddoliti, in questa piazza da cartolina.
Un minuto di silenzio cala pesante sulla folla, ora piuttosto nutrita, mentre centinaia di matite si alzano al cielo. Difficile non peccare di banalità in queste occasioni, ma la lettura dell’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino arriva come un proiettile zittendo anche i più scettici: “La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”.
Quella parola, rispondere, è destinata a rimbalzare a lungo nella testa di molti.
Poi è la volta degli assenti – il sindaco è impegnato altrove ma, ci rassicurano, è presente con il cervello e il cuore (tutto, insomma, tranne che il corpo) – e dei presenti: i giornalisti, il tessuto associativo della città, Amnesty International. Parlano i rappresentanti del Resto del Carlino, la Voce, il Corriere Romagna e il Corriere Cesenate, invocano la libertà di stampa come porta attraverso cui far passare la Libertà nel suo senso più alto e ampio del termine, compresa quella di religione. Si ricordano i paesi nel mondo in cui entrambe sono ancora una chimera. Si sfiorano riflessioni sul ruolo del giornalista, sul senso di responsabilità che questa professione si trascina dietro, si proclama la sconfitta dei terroristi, si condanna la strategia barbarica della pena di morte, si decantano scosse di coscienza.
La giornalista della Voce azzarda le sue personali titubanze sui limiti della satira e poi conclude con un trionfale “Un giornale come Charile Hebdo deve continuare a esistere!”
Un applauso fragoroso pervade un’unica, grande, coesa, sicura di sè piazza popolare dove riluccicano fiammelle e si alzano matite.
Io non ho né l’una né l’altra, forse perché non mi sento affatto né grande né coesa né sicura di me. Mi sento solo infreddolita, e disorientata dalla facilità con cui ci scopriamo profondamente indignati per dimenticarcelo il giorno dopo, dalla velocità con cui proclamiamo la libertà di parola ma solo per ciò che ci fa comodo, dalla sicurezza con cui costruiamo barricate tra quello che reputiamo giusto e sbagliato, tra bene e male, tra una parola di Dio e l’altra.
In mezzo a questo sbrodolamento di buone parole e nobili propositi l’unica frase “vera” la sento alla fine mentre mi allontano dal palco per dirigermi verso casa. È quella che urla il vicepresidente della comunità musulmana di Cesena: “Noi qui abbiamo trovato accoglienza, lavoro e libertà. Insegniamo ai nostri figli che questo è un nuovo Paese”.
Che significa, per farla semplice, morte, senza pietà, al grande carrozzone delle dicotomie.

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