Il sole più cancerogeno del globo mi batte impietoso sulla pelle e sulle tempie; l’aria è immobile, la schiena un delirio.
Raccolgo chili da questa mattina nel campo di chili più grande e desolato che esista, non vedo alberi nemmeno se spingo lo sguardo lontano, non una casa, persone nemmeno a dirlo.
In compenso vedo me, contorta come un lombrico tra i cespugli piccanti, sporca e odorosa come un extracomunitario come in effetti sono. Ma più della vista in questo momento a inquietarmi è il senso del tatto, acuto e pungente come mille aghi. Persino i muscoli che avevo scordato di avere grondano dolore, ma la schiena è di una spanna sopra le altre parti del corpo, la schiena è un rigurgito di spine che mi arrivano dritte al cervello ricordandomi che un’asse non si piega all’infinito senza spezzarsi.
Convinta che camminerò per sempre come una novantenne incartapecorita, mi alzo con cautela rincorrendo una postura umana e, con la precisione di una cestista, lancio una manciata di chili nell’ultimo bin della giornata. Quello che mi renderà definitivamente ricca.
Poi mi volto.
Dietro, il filare dove lavoro da questa mattina appare immoto e lunghissimo e, particolare che i miei occhi rifiutano di mettere a fuoco, desolatamente spoglio. Beh non esattamente spoglio. In effetti una decina di bin spiccano tra il verde nel loro contenuto rosso fuoco. Dieci bin. Pagano a contratto gli sfruttatori di origine italiana e dieci bin sono il frantumarsi dei miei sogni di vita agiata.
Mi incartapecorisco di nuovo per la delusione, la sensazione è di qualcuno che mi stringe alla gola, non respiro. Un ladro di bin si aggira tra noi: ecco come si spiega! Anche se il motivo mi sfugge, il temibile ladro di bin del Queensland ce l’ha con me!
Mi siedo per terra, io e la terra ormai siamo da giorni una cosa sola, il colore e il materiale sono gli stessi. Per un momento l’immagine di una vita normale mi attraversa la mente, mi vedo vestita di tutto punto in procinto di entrare in ufficio, mi vedo con le unghie linde e le scarpe integre ai piedi catapultarmi in una vita che non contempla chili e dove spesse finestre a doppi vetri mi riparano da un sole malato. C‘è l’aria condizionata in ufficio, non sudo, e un pasto degno di questo nome mi attende a breve. Casa mia, profumo di ragù e caffé, divano soffice e avvolgente, bidè in bagno all’occorrenza, televisione in madrelingua.
Sento le labbra inumidirsi, lo stomaco gorgogliare e per un lungo, dolcissimo momento l’immagine idilliaca diventa desiderio.
Ma la mente non si ferma e continua a mostrare una ragazzina con le mani pigiate su una tastiera, gli occhi incollati a un video che rimanda particelle cancerogene e convoglia attenzione distraendola dalla finestra di fronte. Fuori c’è il sole, lei lo sa ma finge di non vedere, rimane incollata al monitor ascoltando il telefono che continua a trillare impietoso, le voci attorno in un crescendo doloroso, il battito del cuore ansioso e irrequieto.
Il sole sta cominciando a scendere a ovest ma il caldo non allenta le morsa, tutta l’acqua del Queensland non basterà a levarmelo di dosso. Mi aggrappo alla bottiglia come a una zattera e affondo la mano tra i chili, saggiandone la consistenza. Sono caldi e lisci. Può venirci fuori un sugo meraviglioso, basterà aggiungerci una cipolla, qualche zucchino e un po’ di salsiccia. Il vino scadente da 10 dollari, il vento che sempre si alza la sera nel campeggio, le risate degli altri disperati raccoglitori distrutti e sfruttati faranno il resto.
Sento le labbra inumidirsi, lo stomaco gorgogliare e per un lungo, dolcissimo momento l’immagine idilliaca diventa desiderio…